Romano Guardini, teologo e filosofo cattolico di origine italiana del XX secolo, cerca di conciliare il pensiero filosofico di indirizzo cristiano con le sfide della modernità, promuovendo uno scenario il cui orizzonte si espande attraverso i punti fin qui considerati di alterità e scelta, rapportandosi anche con l’importanza della fede come atto esistenziale. Con Kierkegaard, Guardini condivide soprattutto la profonda preoccupazione per l’individuo e il suo rapporto con Dio, perché da questo punto fermo, l’uomo vive la sua esistenza, le sue decisioni, il suo modo di stare nella vita.

Proveremo ad analizzare la problematica dell’opposizione polare di Guardini e dei suoi richiami con Søren Kierkegaard, interpretandola come una visione del mondo e della realtà che rifiuta le dicotomie rigide e meccaniche di una filosofia positiva a favore di una comprensione più dinamica e organica della complessità dell’essere. Infatti, per Guardini, il reale non può essere ridotto a un insieme di opposti che si escludono reciprocamente, ma egli vede la realtà come costituita da due forze opposte, non necessariamente in conflitto. Queste forze sono chiamate poli, e ciascun polo è in una relazione con l’altro che, anziché essere distruttiva, è creativa e complementare. Un esempio tipico potrebbe essere quello del giorno e della notte: due elementi distinti e opposti, ma che non esistono uno senza l’altro; entrambi sono necessari per esprimere la totalità di una realtà molto più profonda e dinamica. Quindi, possiamo stabilire che l’opposizione polare non è una negazione dell’altro ma una tensione costruttiva tra due poli che coesistono in una relazione dialettica: ogni polo acquista significato solo in rapporto al suo opposto. Pertanto, per Guardini, la libertà individuale non può essere pienamente compresa senza considerare la comunità, e viceversa: c’è una continua interazione tra l’io e il noi, tra la parte e il tutto. La vita, in questo senso, diventa una continua ricerca di equilibrio tra queste forze opposte, senza la pretesa di risolvere definitivamente la tensione, ma accettandola come parte integrante della realtà.

In termini filosofici, questo modo di pensare riflette una concezione del mondo come una totalità vivente, in cui la verità non si trova esclusivamente in uno dei poli, ma nel loro rapporto. Non esiste un’unità che elimini la differenza, ma piuttosto un’unità che emerge dal dialogo tra gli opposti. Guardini applica questo concetto a molte dimensioni della vita umana: il corpo e lo spirito, la fede e l’esistenza, il singolo e la comunità. In tutte queste sfere, l’opposizione polare invita a non scegliere tra due estremi, ma a riconoscere il valore di entrambi e la loro necessità per comprendere l’esperienza umana nella sua interezza. Quindi, appare già chiaro che, nei movimenti tra le opposizioni polari, l’uomo è chiamato ad accettare la complessità della vita senza cadere nella tentazione di semplificarla eccessivamente; ogni decisione, ogni scelta, implica il confronto con queste polarità e il riconoscimento che non possiamo eliminare l’una a favore dell’altra. Con questa visione, in qualche modo, Guardini offre una prospettiva di saggezza che si oppone a soluzioni rigide e assolutiste, incoraggiando invece una visione più flessibile e comprensiva della realtà, aperta alle sfumature e alle contraddizioni.

Per comprendere appieno il pensiero di Guardini, è necessario partire da un esame critico di alcuni passi del suo libro “L’opposizione polare”, agevolato da un’analisi dalle possibili fonti, sia direttamente dedicate al tema in esame, sia indirettamente collegate al binomio uomo-esistenza, sottolineando, tuttavia, che non sarà agevole districare la matassa delle innumerevoli sedimentazioni che nel corso del tempo si sono depositate qua e là tra le pieghe dell’opera e delle sue interpretazioni. 

Gli opposti e la vita
Quale è l’idea che sta alla base dell’opposizione polare di questo nuovo pensiero che costituisce un’apertura degli occhi all’esistenza umana e permette a Guardini di definire l’uomo come “essere vivo nella storia”? Così scrive il filosofo cattolico:

“La nostra idea contribuisce altrettanto ad allargare il raggio d’uno sguardo sul mondo. Se c’è un luogo dove la sezione individuale del mondo viene identificata in modo ingenuo con il mondo, è appunto in una “Weltanschauung”. Questa infatti, per la coscienza generale, equivale a quel complesso di opinioni e di enunciazioni in cui viene depressa al livello più basso ogni pretesa di verità, è riconosciuta addirittura la competenza della soggettività. Di qui quella implicita sfumatura di spregio che spesso si nota sulle labbra di chi afferma che questa o quella teoria o idea è Weltanschauung. Se mai ci fu bisogno d’una critica della conoscenza individuale, è qui; una critica della capacità individuale di Weltanschauung; della portata e dei pericoli di falsificazione dell’atteggiamento conoscitivo individuale in genere, come dei vari punti di vista tipici in particolare. L’idea degli opposti è in grado di creare apertura viva. Assumerla vitalmente nel proprio atteggiamento rende consapevoli della ricchezza che è nel proprio essere, di tutte le possibilità di vita ivi contenute, di tutte le modalità d’opposizione con cui la vita opera. Gli occhi si aprono; mondi nuovi si schiudono. Ma simultaneamente vengono in luce i propri stessi limiti. La presunzione è superata: quella ingenua autosicurezza per cui l’angusto mondo individuale si identifica col mondo. L’individuo vede le possibilità dell’umano e s’accorge di avervi parte; ma egli vede pure se stesso come un essere particolare. Dà l’assenso a quello, e si mantiene così aperto verso ricche possibilità. Dà l’assenso a questo, e si assicura così la propria particolare strada. Egli sormonta così ad un tempo l’indecisione e la parzialità nella scelta. Vede se stesso come essere in proprio con particolare natura e particolare significato. E tuttavia rinviato verso gli altri, trovando compimento soltanto nella comunità.”

Guardini critica la tendenza a identificare la propria “visione del mondo” con il mondo stesso. Questa è una posizione filosofica che lui definisce ingenua, cioè una prospettiva limitata che prende la propria visione individuale come se fosse universale, senza tener conto della complessità e pluralità della realtà. Questa tendenza a ridurre il mondo alla propria esperienza individuale è particolarmente problematica perché la verità viene svalutata e tutto viene ridotto a opinioni personali, posizioni egoistiche, come se ogni visione soggettiva fosse altrettanto valida senza ulteriori critiche. Quindi è necessario una critica della conoscenza individuale, ridiscuterne le posizioni; è proprio in questo contesto che l’opposizione polare gioca un ruolo fondamentale. L’idea degli opposti permette di creare una apertura viva grazie alla quale il mondo, attraverso la lente delle polarità e delle tensioni creative e non esclusive tra opposti, non solo amplia la nostra visione della realtà, ma ci rende anche consapevoli della ricchezza che risiede nel nostro essere. Guardini, in questo caso, si riferisce alla consapevolezza delle molteplici possibilità che la vita contiene, alle diverse modalità di opposizione attraverso cui essa si manifesta. In altre parole, abbracciare questa idea ci rende consapevoli della complessità dell’esistenza, di come l’uomo si trovi di fronte a delle diverse tensioni che attraversano la nostra esperienza, desidera riconoscerle e accettarle. E’ importante, comunque, che tale apertura non si riversi solo verso l’esterno, verso “mondi nuovi”, ma, anche, verso i propri limiti. La consapevolezza delle polarità non si traduce in una presunzione di possedere tutta la verità, ma, al contrario, ci fa capire che la nostra visione individuale è solo una parte di una realtà più grande. Guardini afferma che l’uomo, nella sua esistenza, grazie a questa consapevolezza, riconosce che il proprio punto di vista è limitato, ma al tempo stesso comprende di far parte di qualcosa di più ampio. Questo porta a superare la presunzione, quella autosicurezza ingenua che identifica il proprio piccolo mondo con il mondo intero. Possiamo parlare di equilibrio esistenziale che, da una parte, ci rende consapevoli delle ricche possibilità che il nostro essere individuale può esprimere, dall’altra, ci fa riconoscere che queste possibilità si compiono pienamente solo nella relazione con gli altri. Guardini parla, infatti, di un individuo che, pur riconoscendo la sua particolarità e unicità, è rinviato verso gli altri, cioè si realizza e trova compimento solo nella comunità. Pertanto, la polarità tra individualità e comunità, individualità e alterità, non è per nulla un conflitto, una frattura, ma una tensione vitale che permette all’uomo di affermare se stesso senza cadere nella trappola dell’autosufficienza o dell’isolamento. La naturalezza dell’esistenza dell’uomo si realizza in un cammino tra gli uomini senza chiudersi nella solitudine, realizzando, così, l’idea di relazione con gli altri. Questo è il superamento dell’indecisione e della parzialità nella scelta di un cammino comunitario poiché, pur riconoscendo la propria singolarità, l’individuo accetta anche la sua appartenenza a una realtà più vasta: la comunità. Se teniamo conto di queste posizioni filosofico-esistenziali, e le facciamo interagire con una delle opposizioni polari che meglio segnano il rapporto di Guardini con la filosofia esistenzialista, ossia la categoria intraempirica tra “singolarità-totalità”, allora emergeranno alcune questioni filosofiche fondamentali di cui tener conto per arricchire sempre di più lo studio sull’uomo nel  suo scenario esistenziale.
La prima questione fondante della filosofia di Guardini è la “categoria vita” espressa soprattutto nella sua concretezza, e non nell’ambito della logica e della scienza;  anzi si dimostra che l’opposizione non è affatto eretta in primissimo luogo dal pensiero, ma si mostra già sempre in rapporto alla vita, nella sua concretezza. Prima di ogni logica e illogicità, la vita stessa, insiste Guardini, opera l’unione di ciò che ha carattere oppositivo. La vita è infatti quel processo che rappresenta il correttivo del pensiero e in tal modo anche il correttivo della scienza: se la vita concreta è pienezza formata, la scienza ne enuclea soltanto un lato, cioè la forma, che sfocia nell’esteriorità esistenziale. Scrive Guardini: “Vita vuol dire sempre e soltanto uomo vivente. Uomo, a sua volta, vuol dire quell’unità così complicatamente articolata, graduata, esistente in ordini vari dell’essere e del valore; unità di tutto ciò che è stato ora enumerato, più ciò da cui essa è metafisicamente retta. Tuttavia nulla dev’essere confuso con nulla. Le distinzioni essenziali dei gradi di essere inclusi nell’unità rimangono. Rimane soprattutto la distinzione radicale tra lo spirito e la materia in quanto sostanze che esistono; e sul piano dello spirito rimane la distinzione fra operazioni d’esso che creano processi e strutture; atti consapevolmente liberi, che attuano valori, e infine gli atti dove la persona entra in rapporto con la persona, dove l’interiorità che possiede se stessa, autosussistenza, soggetto di dignità, entra in rapporto con altre dello stesse genere. Ma anzitutto questo io non riesco a vedere: un piano spirituale, nell’uomo, per se stesso, separato da uno emozionale e da uno vitale. Non conosco un atto «puramente spirituale nell’uomo. Tutto ciò che vi trovo è già per principio spirituale e corporeo insieme, il che vuol dire umano.”
Per Guardini, l’uomo è un’unità estremamente complessa e articolata che si sviluppa su vari ordini dell’essere e del valore. Questi ordini non sono semplicemente accostati, ma si integrano in una “unità” che è tenuta insieme da qualcosa di più profondo e metafisico. L’essere umano, quindi, non è una realtà riducibile a una singola dimensione, ma racchiude in sé livelli molteplici, fisici e spirituali, psichici ed emotivi, vitali e razionali. L’uomo è più di ciò che mostra: è la creatura per eccellenza che va considerata oltre il suo corpo, rispettata nella sua considerevole profondità. Tuttavia, nonostante questa unità complessiva, il filosofo cattolico sostiene l’importanza di mantenere le distinzioni tra i diversi gradi di essere: infatti evidenzia la distinzione radicale tra spirito e materia, riconoscendo che queste due sostanze, pur partecipando all’unità dell’essere umano, mantengono la loro specificità. La materia costituisce la dimensione fisica e corporea dell’uomo, mentre lo spirito rappresenta quella cosciente, libera e trascendente; con entrambe le dimensioni, l’uomo entra in relazione con un’altra persona creando una particolare vita spirituale, in cui l’individuo, come soggetto dotato di dignità, entra in dialogo con altri esseri dotati di autosufficienza e interiorità. Quest’ultima riflessione diventa fondamentale nel momento in cui respinge l’idea di un uomo che ha in sé una frattura esistenziale dal piano emozionale e quello vitale. Ogni azione umana, anche la più elevata, è sempre già, per sua natura, un atto che coinvolge tanto il corpo quanto lo spirito. Questo lo porta, pertanto, a rifiutare ogni visione dualistica rigida, che separi nettamente il corpo dallo spirito. L’essere umano, per sua stessa costituzione, è una sintesi vivente di spirito e corpo, e ogni azione, pensiero o emozione riflette questa unità integrata: gli atti più spirituali, come la preghiera, il pensiero filosofico o l’amore, sono permeati dal coinvolgimento corporeo, non potendo mai essere separati da esso. Quando una persona si relaziona con un’altra, non lo fa solo attraverso il pensiero o lo spirito, ma con tutta la sua complessità corporea, dove spirito e corpo si fondono in un’unità d’azione. In questo modo, l’individuo si realizza pienamente, e offre la possibilità all’alterità di raggiungere la sua completezza. Quindi, in definitiva, Guardini rimane fondante come filosofo dello spirito di completezza, e non quello del cosiddetto riduzionismo.
Dal concetto di completezza, Guardini fa un passo avanti e si domanda se quando si coglie, per esempio, la figura di un corpo, si offre soltanto la realtà di questa sua particolare configurazione, oppure c’è qualcos’altro che è inseparabilmente ad essa connessa?

Scrive Guardini: “D’altra parte io non conosco nell’uomo elementi o processi puramente biologici. Già la stessa figura esteriore vivente dell’uomo è penetrata dallo spirito. Non è né vegetale, né animale, ma umana. Tanto più ciò è valido per la sfera del sentire. Anche questo, appunto, è umano, cioè retto da quella costitutiva unità di corpo e anima spirituale, che ha nome uomo. […] Anche l’atto spirituale è dunque umano; retto dall’unità umana, corporeo-spirituale; esplicantesi in questa unità e riferito ad essa. D’altra parte è umano anche il complesso dell’essere e del vivere corporeo; materialità compenetrata dall’anima spirituale. Forse che il presentarsi dell’uomo non è spiritualizzato? Il camminare? Ma per chi ha occhi da vedere anche una mano o la linea di una spalla è saturata di spirito. E dove dovrebbe arrestarsi questo essere pervasi di spirito? […] Tutto qui è unità vivente.”
La complessità esistenziale dell’uomo inducono Guardini a rifiutare qualsiasi distinzione rigida tra l’elemento biologico e quello spirituale, sostenendo che, nell’uomo, non esistono processi o elementi puramente biologici; anche la forma esteriore dell’uomo è già penetrata dallo spirito, e quindi non può essere considerata né vegetale né animale, ma profondamente umana. Questo coinvolgimento dello spirito non si limita solo agli atti più elevati del pensiero o della volontà, ma si estende anche alla sfera del sentire, che viene descritta come “pienamente umana”, poiché guidata dall’unità costitutiva di corpo e anima. La semplicità di un gesto: una carezza, un sorriso, un ascolto, hanno in sé una realtà corporea che esalta la capacità dello spirito di infondere senso e valore anche alla dimensione materiale dell’esistenza. Per Guardini, il corpo, e lo vedremo in maniera più approfondita nel prossimo capitolo, diventa una vera vocazione umana, un mezzo attraverso il quale l’uomo può esprimere la propria interiorità e vivere in comunione con gli altri. Anche Karl Jaspers, non lontano dalle posizioni di Guardini, evidenzia come “il processo vitale è come un movimento che avviene sul filo di una lama. […] E’ la vita fra il caos da un lato e la forma dell’altro. […] In questo processo la forma relazionale è, al pari di tutte le forme, viva solo quando diviene, morta quando è divenuta perchè la vita è più che forma e deve di continuo sconvolgere ogni forma determinata in quanto forma finita.” In definitiva, anche il “corpo tutto”, l’uomo è sempre al centro di una tensione tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, tra la realtà presente e le sue possibilità future. Questa tensione esistenziale non è qualcosa da risolvere o da superare, ma è una condizione fondamentale della vita umana che deve essere accettata e compresa. Se ci sono alcune filosofie che cercano di eliminare queste tensioni attraverso soluzioni razionali o sistemi chiusi, Guardini afferma, invece, che le polarità e le contraddizioni che definiscono l’esperienza umana sono inevitabili, anzi feconde. Un esempio decisivo si trova nel rapporto tra l’uomo e Dio: l’uomo è sempre teso tra il desiderio di autonomia e il bisogno di Dio, di conoscerlo ed entrare nella sua intimità, di costruire la propria vita affermando sempre la propria identità, relazionandosi con la quotidianità nell’altro. Questa tensione polare, vissuta nel corpo, tra la libertà umana e la dipendenza divina, non può essere definitivamente risolta, ma deve essere vissuta in modo consapevole e responsabile. E’ la linea di pensiero che accomuna sia Kierkegaard che Guardini per cui la tensione esistenziale si fa seria dentro l’apertura della finitudine, senza mai negare la propria individualità. A tal proposito, Kierkegaard scrive che: “Il sé dell’uomo va cercato all’interno e non all’esterno […], e poiché l’esterno, il mondo che non è più la sua casa, diventa un non-luogo che soltanto Dio conosce.” La posizione intrapresa dal filosofo danese rende ancor di più visibile l’ancoraggio di Guardini  nel carattere corporeo e visibile della sua filosofia, soprattutto quando Kierkegaard afferma che il sé autentico non può essere trovato in ciò che è esterno, come le convenzioni sociali, i ruoli o le aspettative degli altri, ma solo attraverso un processo interiore e personale. L’idea che l’esterno, ossia il mondo al di fuori dell’uomo, “non sia più la sua casa” è una riflessione sulla condizione alienante dell’individuo moderno: è come se l’uomo fosse distante da ciò che lo circonda e non potesse più identificarsi con le strutture del mondo, che gli risultano estranee e inautentiche. Questo porta l’uomo a cercare una verità più profonda, una dimensione esistenziale del tutto personale che va oltre a ciò che è superficiale e tangibile. È il “non-luogo” kierkegaardiano, una condizione di smarrimento e disorientamento in cui l’individuo percepisce il vuoto e l’assenza di senso nel mondo materiale. Il senso del “non luogo” non rimane fine a sé stesso, una pietra scartata, ma è “un non-luogo che soltanto Dio conosce” e che può riempire con la sua presenza.
Nell’attraversare questa soglia tra uomo e divino, con il tentativo dell’uomo di capire cosa è veramente la vita, nella sua dinamicità polare tra corpo e vita, diventa essenziale, a questo punto, definire cosa è essere Persona. A tal riguardo, Guardini, nell’opera, “Persona e personalità” scrive: “Essere-persona significa, anzitutto, autoappartenenza nel numerico: sono uno; sono solo uno; non posso essere raddoppiato. Essere-persona significa anzitutto appartenenza nel qualitativo: sono costui; sono solo questa persona; solo io sono questa persona. Non posso essere imitato; di me non può essere fatto un “caso”. […] Ambedue queste forme di determinazione della persona, l’auto appartenenza numerica e qualitativa, l’irripetibilità e la singolarità, vengono vitalmente realizzate, conoscendo che io sono irripetibile e singolare; vedendo la portata umana, etica, religiosa di tale fatto; assumendola su di me e assumendone il compito e la responsabilità. […] La persona è inoltre autoappartenenza in coscienza, libertà ed azione. Conoscere, decidere e agire non sono per sé ancora persona; lo sono solo per il fatto che io mi appartengo nel sapere, nel decidere e nell’agire. Così si fonda e si afferma la persona, come mondo proprio, spirituale e rapportato allo spirito, rimosso dal contesto della natura. La persona è infine autoappartenenza in interiorità e dignità. […] Interiorità significa che io, essendo persona, sono in me, presso di me, e, invero, esclusivamente; significa che nessuno può “entrare”, se non gli apro questa interiorità. Anzi da un certo punto in avanti non la posso ulteriormente aprire, anche se volessi. Qui comincia l’intima solitudine della persona, a cui solo Dio ha accesso. Nell’interiorità la persona è nascosta e al sicuro.” E’ in quest’ultimo pensiero, così perentorio e carico di pathos, che Guardini esprime, in forma sintetica, la sua posizione esistenziale sulla vita. Lo spazio interiore costituisce il cuore dell’individualità umana, un luogo che è definito dalla dignità intrinseca della persona e dalla sua capacità di autodeterminarsi. Ed è in questo che si fonda il concetto di vita nel pensiero di Guardini: l’interiorità è come un luogo sacro, una dimensione in cui l’individuo è pienamente in sé, protetto da un confine spirituale che lo separa dagli altri. Nessuno può penetrare questo spazio personale senza il consenso dell’uomo, e addirittura esistono profondità dell’anima che nemmeno la persona stessa può aprire del tutto. Questo punto mette in risalto un’idea centrale: la persona umana non è totalmente trasparente neanche a sé stessa, e questo mistero costitutivo forma una “solitudine intima” tanto cara alle riflessioni di Kierkegaard sull’individuo di fronte a Dio.

Vediamo dunque come, nel risalire la china dell’itinerario di Guardini, una volta che ha definito perché le opposizioni polari diventano essenziali nella formazione di una vita veramente vissuta nell’alterità, il concetto di vita stessa rende l’uomo bisognoso della sua interiorità, custodito da un corpo comunicante. In questo, è chiara, anche, la posizione esistenziale di Jaspers quando, nel sottolineare che nulla può disabilitare la questione che l’uomo esiste nella sua vita anche rapportandosi con il prossimo, scrive: “Infatti, mentre nel manifestarsi io mi perdo come esserci empirico per conquistarmi come esistenza possibile, nel rinchiudermi in me stesso io mi conservo come esserci empirico, ma debbo fatalmente perdermi come esistenza possibile. Manifestazione di sé e realtà esistenziale stanno tra loro in tale rapporto, che sembrano sorgere reciprocamente dal nulla, e si sorreggono da se stesse. Questo processo del diventare reale, inteso come un diventare manifesto, non si compie affatto in un’esistenza isolata, ma solo insieme con l’altra persona.” Non deve sorprendere che il campo di indagine, così delicato come la filosofia esistenzialista, sia oggetto di confronto di filosofi aventi caratteristiche simili o dissimili dal pensiero di Guardini. Per esempio, è il caso di Gabriel Marcel, il quale, ponendosi criticamente tra Guardini e Jaspers, afferma che l’essere umano non è una cosa o un oggetto da analizzare, ma piuttosto un mistero che si rivela solo nel rapporto con l’altro con il proprio sé e con il proprio corpo. Nell’opera più importante, “Essere e avere”, Marcel descrive l’uomo come un essere in cammino, la cui interiorità è attraversata da una tensione costante tra il possesso di sé e l’apertura verso l’altro. Così conferma, a tal proposito, il suo pensiero: “Ho scoperto forse un’illusione capitale che è contenuta nell’idea secondo la quale l’opacità sarebbe legata all’alterità, mentre è certamente vero il contrario: l’opacità non deriva in realtà dal fatto che l’io si interpone tra se stesso e l’altro, e interviene come terzo? L’oscurità del mondo esteriore dipende dalla mia oscurità rispetto a me stesso: il mondo non ha alcuna intrinseca oscurità. Dobbiamo dire che ciò equivale alla stessa cosa? Domandarsi fino a che punto questa opacità interiore sia un fatto; non è essa, in larga misura, la conseguenza di un atto? E non è in questo che consiste il peccato? Le mie idee mi sfuggono esattamente in ciò che esse hanno di mio; è per questo che esse mi sono impermeabili. Il problema che mi pongo è di sapere se questo non avviene anche per ogni realtà; la realtà non mi è forse impenetrabile proprio nella misura in cui io vi sono impegnato? Tutto ciò è in fondo enormemente difficile da pensare in modo chiaro. Preferirei dire in un altro linguaggio che io cesso di comunicare con il mio corpo (così come comunico con qualsiasi altro settore oggettivo del reale), in quanto il mio corpo è mediatore assoluto. Diciamo ancora che esso non mi è e non può essermi dato, poiché ogni dato avvia un processo di oggettivazione indefinita, ed è ciò che io intendo con la parola impermeabile. L’impermeabilità del mio corpo gli appartiene dunque in virtù della sua qualità di mediatore assoluto. Ma è evidente che il mio corpo, inteso in questo senso, sono io stesso, poiché posso distinguermene solo a condizione di convertirlo in oggetto, cioè non considerandolo più come mediatore assoluto.” Scopriamo, quindi, che per Marcel il corpo è mediatore fondamentale della conoscenza e del rapporto con il mondo esterno; come per Guardini, il corpo non può essere ridotto a un oggetto che “ho”, come se fosse qualcosa di esterno a me, ma è qualcosa che io “sono”. Questa distinzione si riflette anche nel modo in cui esso viene vissuto: quando cerchiamo di oggettivarlo, riducendolo a un semplice oggetto tra altri, perdiamo la sua vera essenza. Vita e corpo, nella loro opposizione vitale, sono invece chiamate a vivere potenzialmente in armonia per far vivere l’uomo la sua relazione con il mondo. 

Lo sguardo e il volto nell’alterità

Dopo aver scansionato i passaggi della filosofia di Guardini nei quali si è scrutato l’orizzonte esistenziale del corpo come sintesi di movimenti del sé verso il mondo esterno, ora analizziamo quello che Kierkegaard ha definito corpo partecipante, ossia il luogo attraverso il quale l’angoscia si manifesta nella realtà esistenziale dell’uomo. Il corpo non è per nulla estraneo alla vita quotidiana, anzi ne è la parte sensibile grazie al quale l’uomo si confronta con l’altrui mondo. Scrive Guardini: “Lo spirito umano occupa una posizione peculiare nel mondo; da un lato, è legato al corpo, di cui costituisce l’anima, l’interiorità, e in questo senso è nel contesto della natura; dall’altro, esso può svincolarsi da questo contesto e contrapporsi ad esso, proprio in questo modo facendo del corpo fisico in genere un corpo vissuto, in tutto e per tutto diverso dal corpo di un animale. Questo spirito individuale e finito è tale da fondare quella possibilità di stare in se stesso e di agire su di sé, che non può essere creata a partire dal solo ambito materiale: la persona. Proprio perché la persona in quanto spirito è soggetto e non oggetto non può mai essere maneggiata e quindi manipolata; è sì finita ma ospita in sé qualcosa di incondizionato, reca in sé un accento di assoluto. 

Il corpo diventa azione simbolica dell’anima. Ciò significa che l’interiorità dell’io, di per sé, si sottrae ad ogni possibile sguardo. Quest’affermazione, per risultare comprensibile, afferma Guardini, richiede la conoscenza del fenomeno del guardare come “un vedere”, ossia venir colpiti dall’apparire significativo dell’oggetto e sollecitati alla comprensione del suo contenuto. Nell’atto del vedere, si palesa il mondo nella sua essenza, ed è evidente laddove possiamo soffermarci sulla percezione del volto. Possiamo vederci l’intelligenza, la bontà o la collera che altro non sono espressioni in atto. Questo significa che l’essenziale delle cose, invisibili di per sé, si rendono visibili attraverso i dati immediati corporei: ciò significa, anche, che l’anima non si trova nel corpo come un elemento materiale accanto a un altro, ma vi esiste a modo suo nella forma dell’espressione in tutte le singole espressioni del corpo. Una delle espressioni del corpo è il volto, con le sue maschere (termine molto caro a Marcel) che si concretizzano nell’altrui sguardo. Un volto umano vivo è un’anima visibilizzata, uno spirito che si può guardare, e se questo può accedere, sottolinea Guardini, è perché il nostro occhio non è puramente un organo fisiologico, ma una ricettore di significato. Pertanto, è del tutto evidente che il vedere è un atto complesso che abbraccia la possibilità di pervenire alla conoscenza dell’anima, certamente non nella sua totalità, ma di sicuro provvede alla genesi della conoscenza sensibile. In definitiva, scrive Guardini: “Il volto umano non è qualcosa di già definito. È espressione dell’interiorità, nasce di continuo da questa interiorità. È il modo in cui lo spirito e il cuore si fanno manifesti e si rivolgono agli altri uomini, ma anche il luogo e l’impulso da cui l’altro uomo si volge incontro, risponde, aiuta. Il volto diviene tanto più perfetto quanto maggiore è la profondità da cui proviene, quanto più puro è il modo in cui esso la rivela. Esiste il volto che non esprime nulla e consta unicamente dei rapporti fra fronte, occhi, naso, guance, bocca, mento. Esiste quello che sembra sì esprimere qualcosa; ma il contenuto non sale dall’intimità, è soltanto finto. Il primo è unicamente un dato di fatto anatomico, la struttura della parte anteriore del capo; il secondo una forma artefatta, la maschera. Un vero volto è qualcosa che diviene di continuo; ciò che nasce quando l’interiorità dell’uomo si esprime. Ciò avviene in direzione dell’altro e in risposta a lui; un rivelarsi dell’io in direzione del tu. Il volto, quindi, non è solo un elemento fisico, ma diventa simbolo di una presenza che trascende il mero aspetto esteriore. Quando guardiamo l’altro negli occhi, ciò che vediamo non è semplicemente un altro corpo, ma una persona, una realtà che ci interpella e che ci costringe a uscire dal nostro egocentrismo. Questa idea richiama indirettamente il pensiero di Emmanuel Lévinas, quando afferma che il volto dell’altro ci impone un obbligo etico: ci chiede di non dominarlo, di non ridurlo a una categoria oggettiva, ma di rispettare la sua alterità radicale. In questo, Guardini potrebbe essere interpretato come sostenitore di una fenomenologia dello sguardo: l’occhio dell’altro, in un certo senso, svela la sua identità, ma allo stesso tempo nasconde la sua piena comprensione. Lo sguardo apre alla conoscenza dell’altro, alla sua esistenza, ma non alla sua totalità. In questo senso, l’occhio e il volto rappresentano una tensione tra rivelazione e mistero, tra ciò che è visibile e ciò che rimane invisibile. L’altro non è mai completamente “dato” attraverso il volto o lo sguardo; c’è sempre qualcosa che sfugge alla piena comprensione, e questo è ciò che rende l’altro un mistero irriducibile. In Guardini, è fondamentale accettare questo limite, riconoscendo che la relazione con l’altro comporta sempre una certa distanza, una certa opacità che non può essere eliminata. Ma l’esistenza dell’uomo non ha un limite finito, concluso: la dimensione umana è una soglia in cui l’uomo ondeggia costantemente tra due poli, quello spirituale e quello corporale. Scrive Guardini: È in virtù dello spirito che l’uomo ha la capacità di prendere le distanze dalla realtà immediata, di trascenderla verso l’alto e verso l’interno; corre però anche il pericolo di arrivare in un ambito non percorribile e inabitabile; ed è in virtù della dimensione corporea che l’uomo si trova nel contesto immediato della natura, vincolato ad una posizione definita nello spazio e nel tempo, nella storia; ciò gli consente di stare nei contesti dell’esistenza immediata, col rischio anche, tuttavia, di immergersi completamente nel mondo e di dimenticare che cosa significhi vocazione spirituale. Nell’uomo, continua il filosofo cattolico, lo spirito individuale, che sussiste in se stesso, e la materia, cioè il corpo formato di materia, sono entrambi realtà originarie, nessuna delle due si può dedurre dall’altra; sono però dimensioni interdipendenti e formano un’unità nel senso che ciascuna si fa valere nell’altra in ogni punto e in ogni comportamento. […] Il rapporto autentico è quello della tensione: dell’unità nella differenziazione.”
Nell’attraversare la soglia di questa metaforica frontiera tra “homo interior ed exterior”, simboleggiata da una linea di confine non rigidamente intesa, possiamo comprendere come la corporeità sia un luogo essenziale per conoscere, per quanto limitatamente, l’esistenza dell’uomo. Guardini non recide i desideri dell’uomo nella società, ma lo vede radicato nella sua vocazione trascendente. L’uomo è chiamato a realizzare sé stesso in Dio, e solo attraverso questa relazione con il divino può comprendere pienamente il proprio significato. La sua vita morale e spirituale è orientata verso una finalità ultima che si compie nella comunione con Dio; una comunione che si conclude, anche quì, nell’unità polare, cioè dalla relazione di due elementi in reciproca tensione e coappartenenza, l’anima e il corpo, interiorità ed esteriorità. Per il pensatore italo-​tedesco, il valore del corpo è chiaro e intangibile, e non va confuso né scambiato con quello dell’anima: il senso del corpo non è l’anima, ma il corpo stesso. Ė evidente come il senso della vita non si possa concludere in un’unica dimensione spirituale, anzi: riguarda il carattere vivo e dinamico della dualità spiritual-​corporea dove l’importanza esistenziale della corporeità vissuta richiede non una semplice interazione, come sostiene Gabriel Marcel, ma un mistero che richiede partecipazione e apertura. Per Marcel: “il corpo, il volto e lo sguardo sono i modi in cui l’essere umano si apre all’altro e al mondo, senza però poter mai ridurre completamente l’altro a oggetto.” L’esistenza dell’uomo, nella sua misteriosa dinamicità, ed è sempre bene ripeterlo, rimane una dinamicità incarnata nella sensibilità esistenziale per cui l’uomo vive la sua autenticità e la sua libertà sempre in relazione alla sua condizione fisica e temporale. Come Kierkegaard, Guardini vede nell’esistenza umana una tensione costante tra la singolarità del soggetto e l’infinito, e il corpo, quindi, non è mai soltanto un limite, ma anche una condizione di possibilità. È attraverso il corpo che l’uomo vive e si esprime, ma è anche nel corpo che l’uomo si confronta con i limiti della sua esistenza finita. 

Concludendo l’esamina critica della filosofia di Guardini e, sebbene il filosofo cattolico non si identifichi strettamente con il movimento esistenzialista, il suo apporto rimane di fondamentale importanza per la riflessione sulla concretezza dell’esperienza umana, sul modo in cui l’uomo vive la sua esistenza nel mondo, tra corpo e anima, tra immanenza e trascendenza. La realtà esistenziale dell’uomo non può esistere senza il corpo, così come il corpo è sempre compenetrato dal significato spirituale. Questa visione è radicalmente diversa da quella dei filosofi che vedono nel corpo una prigione o un limite; per Guardini il corpo non è un ostacolo, ma una condizione fondamentale dell’esistenza e della relazione.